lunedì 25 febbraio 2013

PROLOGO

Ecco il prologo del libro nel quale, senza che venga svelato nient' altro, c'è comunque tutta la storia.

PROLOGO
La vicenda romana
Il centurione Marco sapeva che i suoi uomini erano ormai stremati
dall’inseguimento. Da giorni stavano marciando verso nord con le loro
trenta libbre, in media, di vettovaglie sulle spalle. Eppure i suoi cento
ragazzi, come il resto della legione, continuava ad avanzare, passo
dopo passo, sebbene i generali cavalcassero leggeri lungo le schiere, facendo
suonare ordini disparati e riprendendo poi la rassegna; sempre
muovendosi, sempre marciando. Marco era un veterano, trent’anni di
battaglie e di ferite, mai una alla schiena, e vedendolo procedere con il
passo cadenzato, perfettamente a tempo, i suoi uomini traevano nel loro
animo nuove energie; se lui avesse resistito, lo avrebbero fatto anche
loro.Ma stavolta la faccenda era tremendamente complicata e, sebbene
marciasse sapendo che i suoi uomini erano stremati, e sebbene non volesse
dar loro motivo di esitazione, Marco dubitava. Sì, perché stavolta
stavano inseguendo un esercito romano.
«È gente come noi, preparata come noi, che combatte come noi
combattiamo» pensava Marco marciando davanti ai suoi uomini armati.
«E magari in questo momento tra le schiere di Catilina c’è uno dei suoi
veterani, Caio Manlio forse, o Marcello, che stanno pensando che tutta
questa faccenda è maledettamente confusa» continuava a ripetersi, senza
perdere il ritmo dell’inseguimento.
Marco presupponeva comunque un esito, a breve, di quella strana
guerra tra romani; che poi, per dirla tutta, non riusciva proprio a capire
perché i suoi ragazzi avrebbero dovuto combattere contro quelli di
Caio, appunto, che fino a venti giorni prima avevano condiviso la solita
caserma. In ogni modo la legione si stava stancando troppo, e lo stesso
succedeva sicuramente alle schiere di Catilina, il cui passaggio per
quelle campagne dell’Etruria settentrionale erano ben evidenti.
La sera, quando si fermavano per la notte e montavano il campo,
qualcuno mormorava che, procedendo a nord, Catilina avrebbe raccolto
altri alleati e la cosa poteva anche essere sensata, ma Marco riteneva
che i popoli etruschi e i galli della Padania non avessero la forza necessaria
per modificare le sorti di quella guerra, per cui i giochi si sarebbe-
ro fatti tra romani, e poiché tutti e due gli eserciti erano stremati, ciò sarebbe
avvenuto più presto che mai.
Quella sera costruirono il campo su un terreno pianeggiante al centro
di una grande vallata che si estendeva a perdita d’occhio verso il
sole morente. La zona non sembrava molto salubre: acquitrini e pantani
li proteggevano a est e a ovest, mentre a sud, verso Roma, la ritirata era
tagliata dal fiume Arno, gemello del loro amato e venerato Tevere, che
in quel punto della valle scorreva lento, perdendosi in innumerevoli
pantani. A nord, invece, potevano vedere tra i colli le luci delle torce
dell’esercito di Catilina che aveva trovato quartiere nella vecchia città
di Fiesole, le cui mura, nella tenue luce del crepuscolo, ricordarono a
Marco delle ombre stanche, come i suoi uomini.
A notte ormai inoltrata, fu convocato il consiglio di guerra. I generali
Quinti, Marcio e Marcello, avevano stabilito di attaccare il giorno
successivo. Il piano prevedeva di prendere d’assalto Fiesole salendo direttamente
verso nord sulle pendici di quel colle, prima che l’esercito
avversario avesse potuto schierarsi a difesa di un presidio elevato, per
cui entro breve tempo la legione si sarebbe messa in marcia. Ma fin da
subito Marco e i suoi cento ragazzi si sarebbero diretti con degli esploratori
alcuni chilometri più a ovest, per trovare un piccolo affluente dell’Arno,
seguendo il cui letto avrebbero raggiunto Fiesole da un altro
versante del colle.
Nel giro di mezz’ora la sua centuria era preparata. Ogni uomo era
armato e si era nutrito a sazietà. Avrebbero lasciato tutto il superfluo al
campo, che nella notte non avrebbero percorso un’altra tappa di quella
lunga marcia ma si sarebbero mossi per uccidere. Poco dopo l’ora più
scura della notte partirono, muovendosi decuria per decuria, nel silenzio
più profondo.
Non si può sapere perché i popoli etruschi fossero affascinati dalla
morte e dalla luna, come tante popolazioni dell’antichità, ma sovente
essi amavano passeggiare nella notte. Quella notte una bambina etrusca,
nonostante la tarda ora, si aggirava ancora per la campagna. Forse
perché voleva appunto salutare la luna, il cui quarto crescente tardava a
salire sull’orizzonte, forse perché si era persa, o forse perché così piaceva
al destino. Marco non avrebbe saputo dire perché si trovasse proprio
tra i pantani dell’Arno, a ovest del campo romano da cui un giorno
sarebbe nata Firenze, mentre con i suoi uomini si dirigeva all’attacco di
Fiesole, ma con un solo colpo deciso della sua daga ne trasse la vita dal
petto. La loro missione doveva rimanere assolutamente segreta, come
gli era stato ordinato. Il sangue, nero nella notte, tinse le sue armi e la
sua armatura, mentre il corpo della poverina si afflosciava nel fango,
tra i giunchi e le canne, e cento coppie di piedi la superavano calpestandola
senza sgomento e senza pentimento. Non fu versata una lacrima
per lei, non fu deposto un fiore alla memoria di quella piccola vita
spezzata, mentre il corpo ancora caldo sprofondava nella palude, scomparendo
per sempre alla vista di ogni essere umano. Eppure un idolo di
legno dalle fattezze di donna, posto poco più lontano, monito di una divinità
già da troppo tempo dimenticata, sembrava guardare con occhi
ardenti di fuoco quella piccola morte.

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